24 giugno 2019

Linguaggio e giornalismo automobilistico: alcuni spunti di riflessione



Non occorre fare grandi sforzi di ricerca filologica per rendersi conto di quanto rapidamente lo stile giornalistico sia soggetto a radicali mutazioni. Sono aggiustamenti graduali ma inesorabili, che finiscono per coinvolgere il gusto, lo stile, il lessico, la prassi del periodo, in un ultima analisi il modo di raccontare i fatti e forse addirittura il modo di vedere i fatti stessi - se è vero che a livello semantico la “forma” può essere considerata un’espressione del “contenuto”. E come accade in letteratura, certi stili godono di una prolungata fortuna, capace di influenzare intere generazioni di professionisti. Tutti abbiamo ben presente ad esempio l’incedere pomposo e classicheggiante dei cronisti del ventennio fascista, un registro aulico e compassato che è sopravvissuto almeno fino all’inizio degli anni sessanta, per poi lasciare ancora qualche “scoria” in epoche successive. Anche lo sport non fa eccezione, e anzi, a volte è proprio l’evento agonistico ad estremizzare alcune mode e alcuni vezzi della lingua che cambia. L’automobilismo, dal momento della sua affermazione come spettacolo mediatico, costituisce un interessante spunto di osservazione, secondo forse solo al ciclismo e al calcio, discipline che – è appena il caso di ricordarlo - vantano una tradizione “epica” nobilitata da firme che hanno saputo trasformare il fatto sportivo in materia letteraria; basterà citare Orio Vergani o Dino Buzzati. E malgrado una moda barocca che non è mai del tutto tramontata, già nell’anteguerra ci fu chi riuscì a conservare una lodevole sobrietà di linguaggio, precorrendo i tempi nei confronti di chi amava riempirsi la bocca di termini quali “eroe”, “cimento”, “disfida”, “agone”, “palma del vincitore” e via dicendo.

Arriva la televisione

Dopo il condizionamento della radio – vera e propria creatrice di un’epica applicata ai fatti sportivi - la graduale semplificazione del linguaggio verso toni meno aulici fu probabilmente favorita negli anni cinquanta dall’avvento della televisione, che creò una sorta di lingua comune di tono medio, adatta a tutte le situazioni e a tutti i registri. Si attenuarono così le esagerazioni omeriche dei decenni precedenti, ma non si pensi che ciò sortisse sempre e comunque effetti benefici.

Verso la modernità?

Il giornalista è spesso un tipo un po’ vanaglorioso, e il declino di tutto quell’armamentario di termini roboanti coi quali il narratore si era riempito la bocca parlando di Nuvolari e Varzi ebbe sulla sua prosa un inatteso contraccolpo: via le trombe e i tamburi, fra l’inizio degli anni sessanta e gli anni settanta il tono divenne sempre più confidenziale, ai limiti del civettuolo. Una specie di sciatteria (voluta? non voluta?) s’infiltrò piano piano nei testi, quasi a cercare una complicità col lettore. Per parte sua, il “quotidianese” iniziò a contaminare anche i settimanali, senza peraltro rinunciare ad un sottofondo retorico di sapore superomistico e vagamente patriottardo, eredità difficilmente eliminabile, anche a livello inconscio. Si cercò di imitare il linguaggio da bar, ad esempio “mascolinizzando” i nomi delle vetture (“il Ferrari”; “il Formula 1”) e modernizzando la punteggiatura fino ai confini di un banale espressionismo, che non aveva certo niente di artistico. Oltre a qualche pittoresca reliquia terminologica, restavano altri legami col passato: nelle riviste specializzate come Autosprint la lunghezza degli articoli era comunque ragguardevole, ma iniziava timidamente a fare capolino la suddivisione in paragrafi titolati. Tornando allo stile, si usava in maniera alquanto disinvolta quello strano plurale majestatis pseudo-giornalistico, una delle prime cose che un caporedattore oggi vieta al giovane praticante. Il linguaggio dell’automobilismo sportivo anni settanta era un magma un po’ disordinato che tentava di affrancarsi dalla lingua letteraria abbracciando quella parlata. In questo caso si può dire che la “leggerezza”, considerata dall’Italo Calvino delle Lezioni americane come una delle doti indispensabili dello scrittore, non era altro che superficialità a buon mercato. In quel periodo il confronto con i nomi migliori del giornalismo europeo (viene subito in mente Denis Jenkinson, un vero innovatore, quasi uno “scrittore”) era abbastanza limitato. Se la letteratura si fa con la letteratura, il giornalismo si fa col giornalismo, e da certi luoghi comuni è difficile uscire: “è così – scrive Angelo Tito Anselmi nella raccolta di articoli dedicata alla Trieste-Opicina, edita da Legenda – che il progresso tecnico è inesorabile, è così che un pilota diviene l’ alfiere dell’Abarth, che un altro pilota morto in un incidente è un uomo immaturamente immacolatosi e tante grazie che la frase non continui sull’altare del progresso. E così il tracciato (il tracciato? Perché mai chiamare tracciato un certo percorso?) sarà insieme tortuoso e velocissimo. Come potete immaginare, quello degli organizzatori è immancabilmente un caldo ringraziamento, mentre gli applausi degli astanti sono entusiastici.”.

Pulizia ma non troppo

Gli anni ottanta portarono ad una sempre maggiore semplificazione, privando i testi di quell’aura di saccente noncuranza che trasudava dalle lunghe colonne circondate di foto in bianco e nero. Si restrinsero i formati, diminuì la lunghezza degli articoli, sparirono parole considerate ridicole come “corridore”, e altre nuove ne arrivarono, soprattutto prestate dall’inglese e dal linguaggio della pubblicità. Quanto era barocco il gusto soprattutto giovanile dell’epoca (ricordate ad esempio le cinture in stile western e i pantaloni della El Charro?), tanto si andava gradualmente semplificando lo stile giornalistico. 

Oggi il linguaggio automobilistico – ma il discorso potrebbe estendersi ad altri settori – conserva molta di quella rapidità degli anni ottanta, ma è forse più vuoto, più spento, più edulcorato. Colpa forse di quello stile da ufficio stampa del quale sono impregnati moltissimi giornalisti, che per mancanza di vere opportunità di lavoro si vedono costretti ad arrotondare le proprie magre entrate con collaborazioni nel settore della comunicazione commerciale, dal quale vengono inevitabilmente influenzati. Sparisce tutto ciò che può passare anche lontanamente come offensivo, discriminante, politicamente scorretto, e l’effetto soporifero è nella maggior parte dei casi assicurato. L’autoreferenzialità degli anni settanta è ormai acqua passata, ma in compenso ci si compiace di inutili prestiti come “shake down” o “driver”, mentre altre parole perfettamente lecite vanno progressivamente sparendo: alcuni redattori consigliano ad esempio di evitare la parola “corsa”, che sa troppo di… cavalli. Il periodare si è semplificato, ma non a vantaggio di una maggiore chiarezza: si è più che altro involuto, ripiegato su se stesso, vittima della mancanza d’inventiva e di vera passione nel raccontare cose nuove. I giornalisti sono sempre più vittime della mancanza di tempo e della precarietà della propria situazione lavorativa. 

Ciò non giova certo alla qualità della scrittura, sempre più mediocre a causa di una crescente de-professionalizzazione del settore. Se infatti fino a qualche decennio fa quello di giornalista poteva definirsi un mestiere, oggi, in molti casi è semplicemente un hobby. Un hobby di appassionati che, per quanto volenterosi, arrivano dalle esperienze più disparate, cercando di improvvisarsi cronisti, reporter quando non opinionisti o editorialisti. Senza sconfinare nel classismo, se si possiedono quei quattro luoghi comuni si può entrare a buon diritto nella grande commedia dell’arte che ormai è diventato il settore del giornalismo dell’auto, saltando a piè pari tutta una lunga formazione professionale che ormai è solo un inutile intralcio. Il dilettantismo è il fenomeno dei nostri giorni, ed è un paradosso che dilaghi proprio ora che i mezzi tecnici a disposizione sono quanto di più “professionale” si possa immaginare (pc portatili, telefonini, videofonini, Internet, macchine fotografiche digitali e così via). E nella mentalità di tanti aspiranti “nuovi giornalisti” c’è la convinzione che la tecnologia possa sostituire sempre e comunque la lunga pratica professionale e la cultura di base.

“Giornalese”… spurio

Esiste una schiera di appassionati che farebbero carte false pur di entrare in un autodromo con un pass “media”? Benissimo, sfruttiamoli a dovere! Con conseguenze facilmente immaginabili e danni irreversibili a lungo termine su tutto il sistema. Certo, il semplice appassionato può essere una risorsa, specie nel caso in cui conosca a fondo un determinato argomento. E in effetti le riviste di nicchia ne hanno fatto sempre un uso massiccio, ma in questi ultimi anni la pratica si è estesa ad ogni genere di pubblicazione.A livello di scrittura, in questa confusione di ruoli, saltano sorprendentemente fuori vecchi stilemi, magari presi pari pari da articoli degli anni settanta, che si mischiano con fraseologie importate da settori molto lontani o elementi del gergo televisivo. 












Anche i format d’impaginazione hanno finito per influenzare lo stile stesso degli articoli: in un paese tradizionalista come l’Inghilterra i recenti cambiamenti di impostazione in riviste prestigiose come Autosport o Motor Sport hanno coinciso con una sempre maggiore standardizzazione delle forme, con la definitiva prevalenza dell’immagine sul testo e con l’arrivo di parole considerate fino ad oggi poco opportune in un pezzo “serio” (hero, shock e così via).

            Nella civiltà dell’immagine, distinguersi con la scrittura diventa sempre più arduo. Individuare le varie “scuole”, le varie “correnti” non è impresa facile. Anche perché in molti casi, se lo stile non è chiaro, non lo sono nemmeno le idee che stanno a monte…

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