Non occorre fare grandi sforzi di
ricerca filologica per rendersi conto di quanto rapidamente lo stile
giornalistico sia soggetto a radicali mutazioni. Sono aggiustamenti graduali ma
inesorabili, che finiscono per coinvolgere il gusto, lo stile, il lessico, la
prassi del periodo, in un ultima analisi il modo di raccontare i fatti e forse
addirittura il modo di vedere i fatti stessi - se è vero che a livello
semantico la “forma” può essere considerata un’espressione del “contenuto”. E
come accade in letteratura, certi stili godono di una prolungata fortuna,
capace di influenzare intere generazioni di professionisti. Tutti abbiamo ben
presente ad esempio l’incedere pomposo e classicheggiante dei cronisti del
ventennio fascista, un registro aulico e compassato che è sopravvissuto almeno
fino all’inizio degli anni sessanta, per poi lasciare ancora qualche “scoria”
in epoche successive. Anche lo sport non fa eccezione, e anzi, a volte è
proprio l’evento agonistico ad estremizzare alcune mode e alcuni vezzi della lingua
che cambia. L’automobilismo, dal momento della sua affermazione come spettacolo
mediatico, costituisce un interessante spunto di osservazione, secondo forse
solo al ciclismo e al calcio, discipline che – è appena il caso di ricordarlo -
vantano una tradizione “epica” nobilitata da firme che hanno saputo trasformare
il fatto sportivo in materia letteraria; basterà citare Orio Vergani o Dino
Buzzati. E malgrado una moda barocca che non è mai del tutto tramontata, già
nell’anteguerra ci fu chi riuscì a conservare una lodevole sobrietà di
linguaggio, precorrendo i tempi nei confronti di chi amava riempirsi la bocca
di termini quali “eroe”, “cimento”, “disfida”, “agone”, “palma del vincitore” e
via dicendo.
Arriva la televisione
Dopo il condizionamento della radio
– vera e propria creatrice di un’epica applicata ai fatti sportivi - la
graduale semplificazione del linguaggio verso toni meno aulici fu probabilmente
favorita negli anni cinquanta dall’avvento della televisione, che creò una
sorta di lingua comune di tono medio, adatta a tutte le situazioni e a
tutti i registri. Si attenuarono così le esagerazioni omeriche dei decenni
precedenti, ma non si pensi che ciò sortisse sempre e comunque effetti
benefici.
Verso la modernità?
Pulizia ma non troppo
Gli anni ottanta portarono ad una
sempre maggiore semplificazione, privando i testi di quell’aura di saccente
noncuranza che trasudava dalle lunghe colonne circondate di foto in bianco e
nero. Si restrinsero i formati, diminuì la lunghezza degli articoli, sparirono
parole considerate ridicole come “corridore”, e altre nuove ne arrivarono,
soprattutto prestate dall’inglese e dal linguaggio della pubblicità. Quanto era
barocco il gusto soprattutto giovanile dell’epoca (ricordate ad esempio le
cinture in stile western e i pantaloni della El Charro?), tanto si andava gradualmente
semplificando lo stile giornalistico.
Oggi il linguaggio automobilistico – ma
il discorso potrebbe estendersi ad altri settori – conserva molta di quella
rapidità degli anni ottanta, ma è forse più vuoto, più spento, più edulcorato.
Colpa forse di quello stile da ufficio stampa del quale sono impregnati
moltissimi giornalisti, che per mancanza di vere opportunità di lavoro si
vedono costretti ad arrotondare le proprie magre entrate con collaborazioni nel
settore della comunicazione commerciale, dal quale vengono inevitabilmente
influenzati. Sparisce tutto ciò che può passare anche lontanamente come
offensivo, discriminante, politicamente scorretto, e l’effetto soporifero è
nella maggior parte dei casi assicurato. L’autoreferenzialità degli anni settanta
è ormai acqua passata, ma in compenso ci si compiace di inutili prestiti come
“shake down” o “driver”, mentre altre parole perfettamente lecite vanno
progressivamente sparendo: alcuni redattori consigliano ad esempio di evitare
la parola “corsa”, che sa troppo di… cavalli. Il periodare si è semplificato,
ma non a vantaggio di una maggiore chiarezza: si è più che altro involuto,
ripiegato su se stesso, vittima della mancanza d’inventiva e di vera passione
nel raccontare cose nuove. I giornalisti sono sempre più vittime della mancanza
di tempo e della precarietà della propria situazione lavorativa.
Ciò non giova
certo alla qualità della scrittura, sempre più mediocre a causa di una
crescente de-professionalizzazione del settore. Se infatti fino a qualche
decennio fa quello di giornalista poteva definirsi un mestiere, oggi, in molti
casi è semplicemente un hobby. Un hobby di appassionati che, per quanto
volenterosi, arrivano dalle esperienze più disparate, cercando di improvvisarsi
cronisti, reporter quando non opinionisti o editorialisti. Senza sconfinare nel
classismo, se si possiedono quei quattro luoghi comuni si può entrare a buon
diritto nella grande commedia dell’arte che ormai è diventato il settore del
giornalismo dell’auto, saltando a piè pari tutta una lunga formazione
professionale che ormai è solo un inutile intralcio. Il dilettantismo è il
fenomeno dei nostri giorni, ed è un paradosso che dilaghi proprio ora che i
mezzi tecnici a disposizione sono quanto di più “professionale” si possa immaginare
(pc portatili, telefonini, videofonini, Internet, macchine fotografiche
digitali e così via). E nella mentalità di tanti aspiranti “nuovi giornalisti”
c’è la convinzione che la tecnologia possa sostituire sempre e comunque la
lunga pratica professionale e la cultura di base.
Anche i format d’impaginazione hanno finito per influenzare lo stile stesso degli articoli: in un paese tradizionalista come l’Inghilterra i recenti cambiamenti di impostazione in riviste prestigiose come Autosport o Motor Sport hanno coinciso con una sempre maggiore standardizzazione delle forme, con la definitiva prevalenza dell’immagine sul testo e con l’arrivo di parole considerate fino ad oggi poco opportune in un pezzo “serio” (hero, shock e così via).
“Giornalese”… spurio
Esiste una schiera di appassionati
che farebbero carte false pur di entrare in un autodromo con un pass “media”?
Benissimo, sfruttiamoli a dovere! Con conseguenze facilmente immaginabili e
danni irreversibili a lungo termine su tutto il sistema. Certo, il semplice
appassionato può essere una risorsa, specie nel caso in cui conosca a fondo un
determinato argomento. E in effetti le riviste di nicchia ne hanno fatto sempre
un uso massiccio, ma in questi ultimi anni la pratica si è estesa ad ogni
genere di pubblicazione.A livello di
scrittura, in questa confusione di ruoli, saltano sorprendentemente fuori
vecchi stilemi, magari presi pari pari da articoli degli anni settanta, che si
mischiano con fraseologie importate da settori molto lontani o elementi del
gergo televisivo.
Anche i format d’impaginazione hanno finito per influenzare lo stile stesso degli articoli: in un paese tradizionalista come l’Inghilterra i recenti cambiamenti di impostazione in riviste prestigiose come Autosport o Motor Sport hanno coinciso con una sempre maggiore standardizzazione delle forme, con la definitiva prevalenza dell’immagine sul testo e con l’arrivo di parole considerate fino ad oggi poco opportune in un pezzo “serio” (hero, shock e così via).
Nella
civiltà dell’immagine, distinguersi con la scrittura diventa sempre più arduo.
Individuare le varie “scuole”, le varie “correnti” non è impresa facile. Anche
perché in molti casi, se lo stile non è chiaro, non lo sono nemmeno le idee che
stanno a monte…
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