Ogni tanto si apre una finestra e scorrono due o tre decenni di pace, in cui la vita prende un ritmo da calendario arcaico. Gli anni cinquanta, sessanta, settanta. Anche dopo. Ma sempre secolo breve è. Un secolo che porta nei suoi ricordi ancestrali i pericoli o gli scampati pericolo di qualche generazione. Entri nel museo e ti arriva addosso la storia. Forse è la storia alla maniera dei film, mi viene in mente La famiglia di Ettore Scola, ma la sensazione è quella. Periodi lunghi che alla fine di una vita ti guardi indietro e ti sembrano corti, come appunto la durata di un film che ti racconta tutto e magari riesce anche a nasconderti qualcosa, ma tu lo intuisci lo stesso. Si esce dal museo con una sensazione di pesantezza. Tutto lì dentro è terribilmente importante nella sua sostanziale futilità. Non c'è una tuta qualsiasi, ma c'è quella di Fangio.
C'è una collezione di trofei delle più grandi e più importanti gare automobilistiche della storia. Ci sono la Mille Miglia, la 24 Ore di Le Mans, i prototipi, gli autobus, i camion, le auto da record. Ci sono i tentativi di costruire l'auto sicura. C'è l'assoluto, la grandezza che si scontra con le opere e i giorni. Una sommatoria che determina l'idea di progresso, che passa senza che ce ne rendiamo conto. Tutto questo al museo Porsche non lo trovi. Si dice che ogni marchio porti con sé un'eredità che lo rende leggero o severo, autorevole o frivolo, elegante o confidenziale. Mercedes, almeno una volta, aveva uno spirito autentico, ben riconoscibile. Oggi la gamma potrebbe essere quella di qualsiasi altro costruttore, da BMW ad Alfa Romeo, da Jaguar a Audi. Ma forse chi ha pensato, chi ha progettato questa struttura, qualcosa dell'antico spirito ha dovuto assorbirlo da qualche parte. Ne è venuto fuori un monumento non solo ad una marca di automobili ma al secolo breve.
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