Non compro quasi mai EpocAuto. Non perché abbia qualcosa contro questa rivista, che anzi mi piace molto più di altre - fra le poche rimaste in piedi in questo scalcinato paese. E' che spesso, semplicemente, mi dimentico che esiste.
Ormai a galla da quindici anni, EpocAuto mi è tutto sommato simpatica perché, delle italiane, è la rivista di automobilismo che mi ricorda maggiormente certe pubblicazioni soprattutto inglesi ma anche francesi, a metà strada fra l'ufficialità e l'underground. Poi ovviamente ci sono gli estremi per fissati, che a me piacciono tantissimo, come La monoplace, una rivista francese di inizi anni duemila che ebbe una storia talmente bizzarra che un giorno varrà forse la pena di raccontarla. Tornando a EpocAuto, la trovi al supermercato, con quell'aspetto rassicurante, la copertina immutabile, la foliazione un po' miserella. La guardi e quasi sei contento che quasi tutti i temi proposti siano ormai noti e arcinoti. Rischierei di essere irriverente se dicessi che la banalità dignitosa è uno dei punti di forza della rivista. Essa conserva il gusto per la curiosità, per l'aneddoto ben costruito e per la storia ben scritta che fa tornare a mente i giornalisti di un tempo, quelli che hanno vissuto l'era pre-informatica o magari, senza andare troppo indietro nei decenni, quella di transizione, quando le Olivetti Lettera 22 convivevano sulla stessa scrivania con i primi computer (e ci sono rimaste per parecchio tempo). A poca distanza da EpocAuto, su un altro scaffale della Coop, ha attirato la mia attenzione un volume di Marco Gasperetti, La società dei giornalisti estinti, della collana "Libro verità" edita dal fiorentino Mauro Pagliai. Inizia come un saggio storico, il testo tutto sommato breve (poco meno di cento pagine che si leggono in una serata) di Gasperetti, giornalista del Corriere della Sera, nato a Livorno nel '56. E' a metà strada fra racconto e ricerca storica ma che si tratti di fiction lo scopri solo nelle ultimissime pagine. Un viaggio in quell'età di mezzo, appunto, quella che ha segnato il passaggio fra il giornalista vecchio stile, ereditato dalle esperienze dell'immediato dopoguerra, e il giornalista via via sempre più tecnocratico, talmente evoluto (o involuto?) che la sua autorità è stata erosa, il suo prestigio offuscato, la sua utilità messa sempre più in discussione da acidissimi blogger illetterati, fedeli alla comunicazione collettiva e globalizzata. E' un viaggio terrigno e allucinante attraverso atmosfere di provincia di fine anni novanta, quando l'avvento della tecnologia iniziava a costituire per gli editori un'enorme opportunità economica, ma a discapito della qualità del prodotto - del core business, potremmo dire. L'incontro del volume di Gasperetti con l'onesto, compassato e terribilmente obsoleto EpocAuto ha causato una specie di corto circuito. Questi due prodotti cartacei si attraggono e si respingono. Il fatto è che essi mettono in evidenza un conflitto non ancora risolto e di cui non conosciamo la soluzione; anzi, i conflitti sono più d'uno e riguardano la funzione del giornalista oggi, la sua persistenza nella realtà quotidiana, il suo influsso e forse anche la sua dignità. Inevitabilmente collegata a tutto ciò vi è la questione del ruolo delle testate tradizionali oggi, tema di cui mi sono occupato spesso in questo blog. Sono tornato a casa con questa rivista e questo piccolo volume sotto braccio, convinto che averli adocchiati insieme non sia stato un caso.
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